Un ricordo scritto da
Mario Rigoni Stern a Primo Levi: un omaggio ad entrambi.
Caro Primo,
questa è una lettera che ti debbo per vecchia amicizia. Ti avevo scritto dopo aver letto íl tuo ultimo libro e ti dicevo della mia solidarietà e di come il tuo saggio così intelligente e spietato mi avesse riportato tali e tante sofferenti memorie da levarmi il sonno; quel sonno che tu ora hai ritrovato e che ti auguro simile a quello di quando ragazzi nelle sere di primavera ci si addormentava all'improvviso dopo aver tanto giocato all'aria nuova. Ma tu, ieri, non avevi giocato all'aria di primavera e forse a farti dormire così, a farti chiudere gli occhi su questo mondo indifferente e venefico, è stata la stanchezza di quella lontana stagione del 1945.
Sono ormai tanti anni che ci conosciamo, piú di trenta (erano appena usciti i nostri due primi libri), e una vigilia di Natale a chi t'intervistava esprimesti il desiderio di trascorrere con me la notte del 25 dicembre, in un rifugio tra le montagne sepolte dalla neve. Ti scrissi subito: «Vieni, andremo a camminare per nevi incontaminate su per la montagna; accenderemo il fuoco dentro un bivacco e staremo in silenzio a guardare le fiamme: non avremo bisogno di spumanti e di panettoni, nè di suono di campane; a noi basterà la compagnia del fuoco». Non venisti, allora, perché i legami del lavoro e della famiglia ti tenevano a Torino.
Ma un giorno di primavera - era come oggi la stagione - arrivasti con Lucia. Guardammo insieme le arnie delle api, ti mostrai i favi che gocciolavano miele, la regina, la covata, i fuchi, le operaie intente ai loro lavori. Tu con ironica sapienza frenavi il mio entusiasmo dilettantesco e con ragionamento logico ridimensionavi il lavoro e l'ordinamento della società delle api. Poi andammo per un sentiero poco lontano da casa a vedere i caprioli; mi chiedevi dei fiori, degli arbusti, degli alberi, dei funghi, degli animali silvestri.
Tutto questo era bello, ma ogni tanto tra noi scendeva un silenzio improvviso che non era per ascoltare i rumori e le voci della natura, ma perché la tua e mia presenza, reciprocamente, rievocavano i fantasmi di un'altra primavera che, seppur lontana, avevamo vissuto con simili esperienze. Cosí una mezza frase, una parola in tedesco, in russo, polacco, o yiddish, scendeva tra noi provocando una sorta di timoroso pudore.
Quante volte, Primo, in questi ultimi anni ti dicevo: «Vieni, andremo per boschi dove non incontreremo gente estranea; cammineremo sul muschio tra il verde cupo come sul fondo del mare; oppure con gli sci tra il silenzio luminoso, e questo ti farà dimenticare l'angoscia di Auschwitz, e gli impegni di lavoro e della famiglia». Come per un breve periodo ti era capitato durante un'estate.
Eri stato in un luogo fuori mano delle montagne valdostane che con nostalgia mi raccontavi: qualche laghetto a duemila metri che rispecchia il cielo; pascoli da camosci fioriti di genziane, anemoni, soldanelle, miosotis; lenzuola di neve sui fianchi dei monti; ghiacciai sulle vette intorno. E un posto sconosciuto ai turisti e che anch'io conosco; avevamo progettato di ritornarci insieme per sostare, camminare, arrampicare, guardare le stelle e godere il sole. Sarebbe stato l'opposto del campo di concentramento. Ma forse anche un luogo come questo non avrebbe allontanato i ricordi e i fantasmi.
Un pomeriggio d'inverno mi trovai a Torino, era il momento del traffico piú intenso e la nebbia scendeva lungo i corsi e si arrampicava per le finestre dei palazzi. Ti telefonai. Uscisti da casa e c'incontrammo in via Roma e poi, ti ricordi, siamo andati a camminare tra la gente. Mi raccontavi della tua infanzia, di un negozio dove si vendevano a metri le stoffe e le tele, e di un dialetto che ormai piú nessuno capisce. Entrammo anche in un bar nei pressi di corso Re Umberto e stemmo lí seduti per qualche ora a parlare.
Il discorso cadde sugli usi e i riti delle tradizioni ebraiche. Ricordo che letteralmente bevevo le tue parole ed era come se un mondo antichissimo e saggio mi si aprisse davanti per la prima volta. A ogni mia curiosità cercavi di dare una risposta. Quando ci alzammo da quel tavolino, solo allora, ci accorgemmo della gente che era li a discutere animatamente davanti a un giornale sportivo disteso sul banco. Ci guardammo sorridendo come se noi fossimo depositari di un segreto vissuto e capito nelle terre di Polonia.
Ieri, caro Primo, dopo che un giornalista mi ha comunicato per telefono la tua dipartita, mi sono un poco ripreso sfogliando i tuoi libri. Tra le pagine di Il sistema periodico ho trovato una tua lettera del 1983, e da questa ho forse capito il tuo gesto. Mi scrivevi di tua madre quasi novantenne e ammalata, di tuo figlio che era partito per gli Stati Uniti lasciando un grande vuoto nella vostra caa, di te e di Lucia che vi sentivate come «tagliati fuori dal mondo».
Ma tu sentivi anche «un vuoto personale. È un po' come se nel mio ultimo libro avessi spesi tutti i miei capitali. Per un futuro vedremo; per adesso, tanto per non far arrugginire il cervello e la macchina da scrivere, sto traducendo un libro di antropologia di cui non m'importa niente. Se vivessi come te sull'altipiano non avrei di questi problemi, mi metterei gli sci da fondo e via; ma qui è verso; malgrado la crisi ci sono auto dappertutto, ferme o in moto, e solo per uscire dalla città ci vuole un'ora di lotta e di pazienza. E anche tutti i vecchi amici sono in crisi, chi per salute, chi per quattrini, chi per i figli che girano male. E per questo che ti scrivo [. . .] Caro Mario, scusa lo sfogo, un giorno o l'altro mi rimetto in piedi...»
Fra le cose piú care ho anche due tue poesie; una è senza data e ha i versi scritti su un computer (già, il giorno che l'acquistasti mi telefonasti con entusiasmo, invitandomi a farlo anch'io, «è come un gioco, - dicevi, - in una giornata impari a usarlo anche tu! »). Avevi aggiunto con la tua calligrafia chiara e sottile: «Questa è inedita e temo che lo rimarrà a lungo. La dedico ad Anna».
L'altra poesia è inserita in una lettera tutta manoscritta, dove tra l'altro dicevi: «So bene che fare poesie non è un mestiere tanto serio, ma mi prendo egualmente la libertà di mandarti questa che s'intitola A Mario e a Nuto: Ho due fratelli con molta vita alle spalle, | Nati all'ombra delle montagne. | Hanno imparato l'indignazione | Nella neve di un paese lontano, | Ed hanno scritto libri non inutili. | Come me, hanno tollerato la vista | Di Medusa, che non li ha impietriti. | Non si sono lasciati impietrire | Dalla lenta nevicata dei giorni».
E per uso interno e privato... Ma io, oggi, la rivelo perché tu, piú di ogni altro, non ti sei lasciato impietrire dalla lenta nevicata dei giorni.
Ieri, caro Primo, era una giornata splendida di primavera e le api raccoglievano polline e nettare dai crochi e dalle eriche. Ho visto il ritorno delle prime rondini e il bosco risuonava del canti degli uccelli in amore. Ma io piangevo perché tu te n'eri andato. Oggi il cielo è velato e un temporale gira per le montagne. Ma non piango più perché ho nel cuore il tesoro che tu mi hai lasciato e che mi aiuta a essere meno stupido e meno cattivo. Ciao Primo, arrivederci tra quelle nostre montagne nascoste; te lo voglio dire, anche se tu sorridi mesto a questo mio «arrivederci».